La Spezia e dintorni fa i conti con la militarizzazione del suo territorio da quasi due secoli. La nascita dell’Arsenale della Marina militare, nel 1869, è uno degli esempi più evidenti, non l’unico. Un’area di quasi 900.000 m2 (di cui 180.000 edificati), 1.400.000 m2 di acque interne, circa 12 km di strade e 6,5 km di banchine. La sua costruzione diede un impulso notevole, sotto il profilo economico e demografico, alla città, soprattutto per la capacità occupazionale delle officine arsenalizie che, nel tempo, è andata pressoché scomparendo.
Questo “modello” di sviluppo ha segnato profondamente il territorio, lasciando un fossato assai più profondo di quello che lo divide dalla città, un limite invalicabile ben più insuperabile del muro. Per costruire l’Arsenale andarono perduti reperti archeologici di origine romana e preromanica, spostati corsi d’acqua, cimiteri, chiese. San Francesco Grande, un esempio di architettura quattrocentesca, ora è sede dei Carabinieri (chiostro) e deposito di vernici (chiesa). Le fondamenta dell’antica chiesa medievale di San Maurizio sono sepolte all’interno del perimetro segnato da quel muro che separa, da 150 anni, la città dal mare. Dopo il secondo conflitto mondiale l’Arsenale mantenne un ruolo centrale nell’economia spezzina, luogo di sviluppo di conflitti significativi per l’emancipazione della classe operaia. Ma al tempo stesso iniziò un processo di lento ed inesorabile declino. Dopo aver raggiunto circa 12.000 lavorator*, le officine arsenalizie hanno iniziato a lasciare spazi all’abbandono, enormi porzioni di aree in cui emergono, di volta in volta, rilevanti criticità ambientali. Nel 2024, l’organico ufficiale conta meno di 300 dipendenti, con una previsione di ulteriore riduzione per i futuri pensionamenti, dando la giustificazione ad una massiccia “privatizzazione” della Difesa.
L’impatto ambientale delle aree militari spezzine è significativo. La Procura spezzina (2004) rese nota la presenza di una discarica abusiva contenente sostanze tossiche (amianto, accumulatori al piombo, cadmio ed uranio impoverito, parti di elettrosegnalatori, pale di elicottero, parafulmini, quadranti, manometri e strumentazione contenenti radio, metalli pesanti, policlorobifenili, vernici, ecc.) denominata Campo in ferro. Un vecchio bacino di stagionatura del legname, in disuso, tra il mare ed a ridosso delle case. Una parte dei rifiuti fu rimossa, ma ciò che resta mantiene il potenziale rischio, coperta da uno strato di terreno ed un progetto di fitodepurazione, limitando le dispersioni aeree, ma non le infiltrazioni dovute alla presenza di acque sorgive, alcune di queste censite sui fondali di fronte alla discarica.
Durante un’allerta metereologica (2018), il vento distrugge alcune coperture di capannoni (eternit). La Marina militare rende noto che nell’area arsenalizia sono presenti circa 10.000 m2 di coperture in cemento amianto ed una complessiva presenza di amianto che arriva a 104.000 m2. Pavimenti, tubazioni e lastre, in forte stato di degrado.
Vi è poi la questione demolizioni. Nel caso delle navi Carabiniere e Alpino si sarebbero svolte nei bacini di carenaggio, senza verifica preventiva dell’impatto sanitario, ignorando, nonostante il tonnellaggio lo prevedesse, il procedimento di Autorizzazione Integrata Ambientale. Demolizioni in banchina furono fermate, in seguito ad esposti in Procura.
Le accensioni dei motori, delle unità militari ormeggiate in banchina, producono emissioni atmosferiche spesso tali da espandersi per l’intero golfo: vapore acqueo, secondo la Marina militare, ma ARPAL ha evidenziato l’elevata presenza di inquinamento (PM10, PM2.5) in situ. In più occasioni si è posto il pericolo relativo al transito ed attracco di unità a propulsione nucleare della NATO, o di episodi di transito di carichi radioattivi (il caso della nave dei veleni, Pacific Egret), sollevando i rischi legati ad un piano d’emergenza che non è mai stato comunicato alle autorità civili ed alla popolazione. La vicinanza di un impianto Seveso, considerato a “rischio di incidente rilevante”, come il rigassificatore di Panigaglia, non può che aumentare rischi e preoccupazioni.
A questo quadro disarmante si aggiunge Basi blu. Nel 2022 il ministero della Difesa ha reso noto lo studio di fattibilità per l’adeguamento e ammodernamento delle capacità di supporto logistico della base spezzina, nell’ambito del programma per la tinteggiatura della basi militari. Un procedimento amministrativo per la realizzazione di nuovi spazi di ormeggio, dragaggio dei fondali del canale di ingresso ed aree manovra, complementare all’adeguamento degli impianti portuali per “servizi di base”. Un’operazione ritenuta necessaria per consentire alle nuove unità navali che, rispetto a quelle sinora in servizio, sarebbero caratterizzate da differenti richieste tecnico-logistiche nel periodo di attracco, ora non esaustive, oltre che a “rientrare nell’adeguamento delle Basi Navali nazionali al fine di garantire l’osservanza dei nuovi standard operativi della NATO (Bi-SC Directive 85-8)”. Il bando di gara d’appalto per la progettazione prevede la costruzione di tre nuovi moli di ormeggio (Varicella 3, Scali 1 e 2), l’ampliamento di uno esistente (Varicella 1) e l’ampliamento di una banchina esistente (Lagora), con la prescrizione strutturale per il transito, sopra le banchine, di mezzi pesanti che consentano operazioni di rifornimento (80 tonnellate o 4 T/m2). Un simile ampliamento consentirebbe la funzionalità di almeno 14 posti d’ormeggio per unità navali maggiori: 1 Aircraft Carrier (Cavour/Trieste) o Large Ship NATO, 1 Logistic Support Ship, 1 Cacciatorpediniere DDG, 7 Fregate FREMM e 4 Multipurpose Patrol Vessel (PPA). Classi e categorie assai simili in ambito NATO necessitano di adeguamenti ulteriori: dragare il fondale di almeno 12 metri, attuare le predisposizioni di banchine in linea a quanto previsto dalla NATO Directive “Criteria and Standards for Maritime Facilities” BI-SC 085-008 del 01.04.2020 – MC 0671_1 (Final) NU, oltre a riattivare l’impianto di rifornimento gasolio (F76) ed aviogasolio (F44). Per ottenere il nuovo fondale (12 m), è previsto un dragaggio per un’area, di circa 420.000 m2, che ricade all’interno del Sito di Interesse Regionale (SIR) della nota discarica di Pitelli, senza rimuovere i fanghi di fronte alla discarica Campo in ferro. Circa 200.000 m3 di fanghi inquinati (da piombo superiori a 330 mg/kg e da mercurio superiori a 4,5 mmg/kg) saranno conferiti in discarica. 400.000 m3 restanti verrebbero utilizzati per il riempimento delle nuove strutture. Il progetto prevede anche la riattivazione completa di 2 serbatoi (circa 20.000 m3 di capacità, oggi fuori servizio), sotto la strada provinciale 530 di Portovenere, detta Napoleonica, unica via di fuga in caso di emergenza per il rigassificatore di Panigaglia. La struttura sotterranea prosegue sotto l’abitato di Marola, fino alle pendici della collina. Il cronoprogramma prevede la cantierizzazione dal 2025 al 2035. L’area che fu oggetto del protocollo d’intesa con DIFESA Servizi, per la demilitarizzazione mai eseguita (attigua ai moli civili di S.Vito), sarà cantiere logistico e deposito temporaneo dei fanghi di dragaggio.
Perché chiamarle blu, quando l’unico tratto di sostenibilità riguarda le pensiline fotovoltaiche a copertura di un parcheggio, previsto nell’area di stoccaggio temporaneo dei fanghi? Un impianto che “consentirebbero di ridurre il fabbisogno energetico della base navale”. Peccato che con i soli 0,852 MW (2,6 % del fabbisogno, se si considera solo le necessità dei nuovi moli, ossia 31,97 MW) l’energia della base sarà attinta dalla rete, escludendo altre forme di rinnovabili (vento, maree, moto ondoso, ecc).
Intanto la retorica occupazionale viene sbandierata ai quattro venti. Ma qualche molo e qualche banchina che posto di lavoro produrrà? Nessuna garanzia di ricaduta occupazionale strutturale e la garanzia – invece – che gli spazi attualmente occupati rimarranno abbandonati ed inquinati, a spese dei contribuenti. Il programma complessivo ha una spesa previsionale di 950,0 M€, di cui sono finanziati 755,9 M€, in 13 anni, grazie alla legge di bilancio 2017 (art.1 c.140, 520,8 M€) e 2018 (art.1 c.1072, 32,1 M€) e grazie ai Fondi di sviluppo e coesione (Contratto Interministeriale di Sviluppo, 203,0 M€). Il programma è stato ulteriormente finanziato, nel 2024, per complessivi 1,76 miliardi. Non verrà creato un solo posto di lavoro, perché ampliare le infrastrutture non produrrà nessuna opportunità occupazionale stabile. Non sanerà le realtà inquinate, non prevedendo la bonifica dalle sostanze pericolose presenti in un’area fortemente contaminata da discariche ed abbandoni, lasciando innescata una bomba ecologica e di nocività. Non c’è l’ombra di una riorganizzazione di enormi aree militari, molte delle quali abbandonate ed inutilizzate che fanno della base spezzina un dedalo logistico.
Inoltre va sottolineate che, in un contesto globale di continue escalation belliche, invece di prospettare scenari di diplomazia e di dialogo si progettano infrastrutture militari per una maggiore proiezione nei teatri di guerra, in un clima globale sempre più incandescente. La risposta locale è maggiore militarizzazione. È questo il caso del progetto di ampliamento del Sea Terminal (POL NATO), ossia l’infrastruttura marina posta nel levante del golfo spezzino, che consente l’attracco di navi che scaricano il carburante da immettere nel North Italian Pipeline System, che rifornisce le basi aeree di Ghedi, Aviano e Forli, oltre a stazioni di interscambio per rifornire, ad esempio, l’aeroporto militare di Pisa. Un altro molo militare nel golfo con un impatto sul suo ecosistema già compromesso. Né va dimenticato il Polo Nazionale della subacquea, che mantiene un’enorme area, tra Ruffino e Muggiano, un’altra realtà collettrice di interessi privati nel settore bellico. Oppure le attività del Balipedio Cottrau, a pochi passi da Portovenere, dove si testano ordini e munizioni. E visto che ci siamo, ricordiamo anche il Varignano e la sede dei reparti speciali della Marina militare.
In questo quadro, Basi blu sarà la pietra tombale su ogni possibilità di riconversione del territorio spezzino. Un sperpero di soldi pubblici per adeguare gli standard NATO che non creerà nessun posto di lavoro e nessuna ricaduta occupazionale strutturale, lasciando l’Arsenale nel suo abbandono, mantenendo le criticità di sicurezza, ambientali e di salute che attualmente esistono.
Al pessimismo della ragione occorre davvero l’ottimismo della volontà, perché anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera: informare, coinvolgere, rendere partecipi e scrollare la politica indicando le sue responsabilità. E ancora – se volete – istruirsi, organizzarsi, agitarsi. C’è molto da fare. Costruire lo spazio di un dibattito pubblico partecipato che si opponga al progetto Basi blu. Rendere partecipi cittadine e cittadini, associazioni e parti sociali, per affrontare un piano reale di bonifica delle aree militari e di monitoraggio delle attività inquinanti, per una loro riorganizzazione e razionalizzazione. Rilanciare la proposta di valorizzazione, recupero e demilitarizzazione delle aree in stato di abbandono, dei beni culturali presenti e dimenticati (come la chiesa di San Francesco Grande), per ridare alla città la sua storia. E soprattutto restituire gli spazi in disuso alla comunità, per ricostruire un vero e naturale accesso al mare di una città di mare, attualmente senza mare.
William Domenichini